[Film che non ti aspetti] La chiave di Sara

Oggi è il Giorno della Memoria.

Il 70esimo per la precisione, da quando il mondo intero venne a conoscenza di cosa succedeva davvero nei "campi di lavoro" nazisti (non tedeschi - ci tengo a dirlo - perché non si deve puntare il dito contro tutto un popolo per disprezzare una genia di bastardi).

E ci sembra giusto onorare il ricordo di quella tragedia anche proponendovi un film a tema che secondo noi merita una visione, e non è molto conosciuto, pur avendo meritato premi internazionali alla sua uscita.
Diciamo che anche le circostanze nelle quali ci siamo ritrovati a vederlo erano particolari, l’ambito era quello di una sorta di esperimento/esperienza sul sogno, ma a parte questo (che mi ha fatto venire in mente ben altre idee) non siamo rimasti indifferenti.

E' l'occasione per il primo articolo a quattro mani su questo blog, aspettiamo consigli e giudizi, che siamo ancora in rodaggio!
L'idea è quella di evidenziare i punti di vista a volte opposti, a volte concordi quando si ha per formazione, professione e sensibilità un occhio che guarda la stessa cosa, ma vede una luce diversa. Questo concetto lo espanderemo, come dicevo ieri, con Prima_Impressione, ma lo porteremo avanti anche in occasione di articoli come il presente.

Nota: nell'articolo di Marzia le parti in corsivo contengono spoiler, essendo un riassunto un po' Joyceiano del film, il resto è il commento vero e proprio. Se non volete anticipazioni la parte in questione leggetela dopo, è scritta con l'occhio delle emozioni.




-Stefano-

La Chiave di Sara è un film francese del 2010 che parte dall'assunto di voler dissotterrare dall'omertà generale un episodio poco conosciuto dell’Olocausto, un eccidio dimenticato forzatamente dalla storia: quello delle deportazioni al Velodromo d'Inverno di Parigi nel luglio del 1942. Le famiglie ebree del quartiere furono prelevate forzatamente dai loro appartamenti e stipati come bestie all'interno dell’edificio sportivo in condizioni subumane; centinaia furono i decessi, e molte persone vissero in questo modo anche quasi due anni, in attesa comunque della deportazione nei “veri” campi di concentramento. Questi fatti mostruosi si resero possibili grazie alla connivenza della polizia francese e delle autorità locali che fino ad oggi hanno tentato di tenere il più possibile queste vicende nel dimenticatoio: emblematico e triste, fa notare il regista, che al posto di quel Velodromo, un edificio convertito dalla gioia dello sport alla tortura e alla morte, e poi abbattuto per la vergogna, vi sia oggi il moderno palazzo che ospita il Ministero dell’Interno francese.

La trama del film si muove su due piani temporali separati, che hanno come elemento comune un appartamento, abitato nel 1943 dalla piccola Sarah con la sua famiglia e nel 2010 in fase di restauro per ospitare la famiglia di Julia Jarmond, giornalista americana trapiantata a Parigi da 25 anni per via del marito francese e del suo lavoro. E’ proprio per lavoro che Julia comincerà ad interessarsi ai torbidi accadimenti di quell'estate lontana nel tempo e alla deportazione infangata, giungendo pian piano ad interessarsi alla storia e al destino di Sara, la gracile bambina bionda che nasconde nella chiave che porta con sé un mostruoso ed inconfessabile segreto che segnerà per sempre la sua vita. 

Ho trovato molto interessante la scelta dei due piani temporali sovrapposti perché secondo me donano il giusto ritmo alla narrazione e scandiscono per bene gli eventi, sensibilizzando ed appassionando chi guarda pian piano, fino alle “esplosioni” emotive che attendono dietro l’angolo.

Il tema principale della pellicola sembra essere, oltre all'Olocausto, quello della denuncia dell’omertà: ciascun personaggio pare doversi scontrare con un muro di bugie e di non detto, che va palesemente a raccordarsi e a far capo alla bugia più grande, quella della negazione e dell’insabbiamento della tragedia del Velodromo. Una omertà che viene fuori da sia dalle grandi questioni, sia da quelle personali, una sorta di “malattia” trasversale che estende la sua influenza sulle vite dei protagonisti.

Non faccio spoiler perché li odio con tutto il mio cuore e perché se vi sto consigliando un film non vedo perché dovrei anticiparvi qualcosa, ma secondo me la pellicola sa dispensare immagini e sequenze potenti che suscitano emozioni, e non soltanto se si è più o meno sensibili, proprio perché per fortuna non scade nella solita banale retorica da “lacrime napulitane” semplici e confezionate. Sono forse la brutalità e la cattiveria gratuita perpetrata a danno di innocenti, nonché le tragicità trasmessa dalle necessarie scelte in certe circostanze (anche se sono enormemente più grandi dei personaggi coinvolti) ad avermi scosso e fatto riflettere. 

Detto ciò, lo consiglio senza indugio, sia perché fa luce su accadimenti poco noti sia perché offre un ulteriore punto di vista su un argomento che mai dovrebbe passare “di moda” (passatemi l’espressione), senza inoltre risultare per forza un malloppone retorico e che sa di già visto.

Ah, dimenticavo. Soltanto nel 1995 l'allora presidente francese Chirac chiese scusa per la complicità delle istituzioni francesi  in quell'orrore.

-Marzia-

“I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perchè certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza.”
Hannah Arendt

Mi sono imbattuta in questo film in occasione di una ricerca condotta sul tema del trans-generazionale e del non detto, dei ricordi che vengono scoperti per caso ma che cambiano la vita.

Ecco, il film “La chiave di Sara” fa emergere proprio questo aspetto. Non è la classica pellicola emotivamente devastante perché nuda e cruda sui campi di concentramento, ma piuttosto va oltre e si spinge fino ai giorni nostri in un drammatico e sconvolgente parallelismo che porta a farci vivere da veri attori una devastante esperienza.
Lo sfondo storico del film è il repentino e angosciante rastrellamento attuato ai danni degli ebrei parigini da parte della polizia collaborazionista francese nei giorni del 16 e 17 luglio 1942. Più di 13 mila ebrei furono arrestati e rinchiusi nel Velodromo d’Inverno in condizioni disumane, senza letti né bagni, e non c’è neanche un’immagine che ne documenti l’accaduto perché non fu ad opera dei tedeschi, ben noti per la loro ossessiva e sadica documentazione full HD dei loro orrori, ma fu “ad opera dei francesi”.

Da subito siamo immersi nell'atroce vicenda della famiglia Starzynski vivendo le drammatiche atrocità e vicende della guerra dagli occhi della piccola protagonista dell’intera opera, la dolce e tenace ma quanto mai fragile e “colpevole d’amore” bambina di dieci anni di nome Sara, cui presta il volto una meravigliosa attrice esordiente, Mélusine Mayance. Soffriremo con lei e vivremo le brutture dei campi di concentramento ma anche la forza, il coraggio, l’amicizia e la speranza che spingono la piccola Sara a lottare per vivere e per raggiungere il suo obiettivo, per liberare il suo fratellino e il suo senso di colpa per l’eccessivo amore, per l’eccessivo zelo di protezione. 

Una famiglia di ebrei parigini, la famiglia Starzynski, il felice risveglio di due piccoli fratelli, Sarah e Michelle, che giocano sotto le coperte facendo risuonare nell'aria le loro cristalline e spensierate risa, un suono secco e terrifico dal campanello di casa, due freddi e crudi poliziotti collaborazionisti francesi, una richiesta di lasciare repentinamente il proprio appartamento portando con sé solo una valigia con pochi panni e qualche soldo, la brutale e surreale realtà, l’amore puro e vero di una sorella maggiore, dieci anni, verso il proprio fratellino più piccolo, di cinque o sette anni, la fiducia reciproca e la promessa, il patto tra fratelli da non infrangere, un armadio nascosto e mimetizzando nella carta da parati del muro. Uno sguardo di tenerezza misto a sbigottimento, fiducia indiscussa e terrore, una chiave, la fuga, la crudeltà e l’ignoranza di una donna/mamma francese, il ricongiungimento con il padre e l’inspiegabile ritrovarsi all'interno dell’ormai famigerato Velodromo d’Inverno parigino con 13 mila altri ebrei, negli afosissimi 16 e 17 luglio 1942. Donne, uomini, vecchi,bambini e animali domestici ammassati e accalcati gli uni sugli altri, avvolti dagli odori fetidi e nauseabondi prodotti dalla mancanza di bagni, di aria, di acqua, dall'alienante situazione disumana e taciuta, non rappresentata né rappresentabile, senza letti e senza cibo, una speranza di salvezza mancata per paura e codardia. 

Sessant'anni dopo ma in parallelo vivremo la storia della seconda protagonista, una perfetta Kristin Scott Thomas, nei panni di Julia Jarmond, una giornalista americana da tempo residente in Francia, una figlia sedicenne e un marito architetto alle prese con la ristrutturazione di un vecchio appartamento di famiglia al 36 di Rue de Saintonge, dove i genitori di Bertrand Tezac (questo è il nome del marito) hanno abitato fin dall'agosto 1942. 

Le porte si aprono, autobus e treni straboccanti di persone, di ebrei ammassati come carne da macello, cancelli agghiaccianti che si dipanano davanti ai propri occhi, il trambusto, le urla, le grida, il caos convulso dei corpi, delle armi, le famiglie che si dividono, braccia, mani, piedi, capelli, calci di fucile e poi apparente ordine e compostezza forzata. I propri vestiti che si tolgono e nuovi e anonimi che si indossano. Una stella sul petto, un numero marchiato sulla carne viva del braccio. La violenza atroce, ingiustificata, terribilmente gratuita ed insensata, l’angosciante, disumana e alienata vita, i lavori forzati, il terrore ed il nascondersi, la febbre e la fame, la voglia di lottare e di resistere, un obiettivo da raggiungere, una promessa da mantenere e non tradire, vani tentativi di fuggire via e correre. La paura, la speranza che va affievolendosi e lo sconforto che attanaglia sempre più. E poi una parola, una bambina poco più grande di Sarah, l’alleanza solidale e sincera che fa rinascere e rinvigorire la forza e i piani di fuga riprendono vita. Una mattina come tante, grige, vuote, terrifiche e agghiacciantemente monotone e mortifere, un soldato di vedetta che non osserva, la distrazione, il filo spinato, la terra, le mani nude che scavano, il ricordo di una mela concessa e di un nome, Sarah Starzynski, pronunciato senza paura e con fermezza, un cuore di ghiaccio, apparentemente freddo e spietato che si scioglie e che aiuta, tiene alto il filo spinato, fa sanguinare la propria mano. E poi…. la libertà, la via di fuga, la corsa matta e disperatissima senza un’apparente meta, il denudarsi dagli anonimi e stellati vestiti, il tuffarsi liberatorio in uno specchio d’acqua, il riscoprire con gioia e vergogna una piccola felicità e poi...il ricordo dell’obiettivo principale, della promessa, del faro che l’ha tenuta in vita e che l’ha fatta sopravvivere e sopportare e arrivare fin li. La notte che scende, le strade silenziose e pullulanti di pericoli, il vagare senza meta e la fame, la sete e la febbre che ti bloccano. Un cane che abbaia e si avvicina, attira l’attenzione. Una casa illuminata, una porta che si apre, una richiesta di aiuto e un nome fasullo detto, un rifiuto iniziale e la porta che si richiude. Il cane fedele che non abbaia più ma aiuta e riscalda, la sbigottimento di un uomo che ritrova le due bambine strette in un abbraccio e protette dal cane nella sua cuccia. La commozione, la pena e l’umanità che finalmente tornano a scorrere nel sangue dell’uomo e l’amorevole accoglienza della moglie, il cibo, un bagno caldo, i dolci profumi e i nuovi vestiti, il campanello che suona e il terrore che ritorna, il nascondersi nuovamente, il tifo che non perdona e la morte improvvisa dell’unica amica. L’amore di un uomo e di una donna verso Sarah, la decisione di acconsentire ad aiutarla nella sua ricerca, il travestimento, i finti documenti, la nuova identità di Sarah, il treno, il controllo, il superamento della prova e finalmente Parigi, un indirizzo, la corsa folle su per le scale, uno scampanellio convulso, la porta che si apre, il correre isterico verso la stanza, verso il muro e …..

Un servizio sul rastrellamento degli ebrei di Parigi da scrivere, dei piccoli ma insormontabili problemi di coppia da risolvere, una dolce vecchina in una casa di cura per ricchi come suocera, delicata ma amorevole e molto sensibile, un suocero misterioso ma che ha stima di lei, una ricerca storica il più fedele ed emotivamente umana e reale possibile per far conoscere l’atroce storia del Velodromo d’Inverno, l’attenta e accurata ricerca dei documenti e delle storie di vita vissuta al Mémorial sulla Shoah per dare un volto ed una dignità a tutti quei poveri ed innocenti ebrei, un segreto inconfessabile che viene portato alla luce, una verità che destabilizza ma che non può essere più taciuta ed affrontata. Una ricerca capillare e in prima persona intrapresa, famiglie che si interpellano, testimonianze e foto che riemergono dal passato ingialliti ed impolverati ma sempre tremendamente vivi e presenti. Viaggi alla ricerca di una volto e di una identità da ricostruire e collocare.

“Coloro che erano sopravvisuti nei ghetti e nei campi, che erano usciti vivi dall’incubo dell’abbandono più disperato e assoluto (tutto il mondo era una giungla e loro erano la preda) non avevano che un solo desiderio: andare in un posto dove non avrebbero mai più visto un solo ebreo.”
Hannah Arendt

L’America, un cognome, un matrimonio, una testimonianza, un taxi ed un indirizzo. Una giovane donna garbata e dai modi gentili in una casa accogliente e calda, lussuosa e ricca di ricordi di vita e di segreti. Una signora sulla settantina, suo marito ammalato a letto, un figlio. E poi l’Italia, la Toscana con i suoi profumi e i suoi colori e soprattutto con il suo buon cibo, un libro di cucina, un incontro in un ristorante, un uomo di bell’aspetto distinto, un cuoco affermato, una verità scottante rivelata, l’incredulità e la non accettazione, la negazione. Un viaggio deluso, una scelta di vita importante da affrontare in solitudine. Un nuovo viaggio, quello di un figlio dal padre morente, il disvelamento di una verità forte, un senso di colpa mai superato, una vita mai vissuta pienamente, una tristezza troppo più grande e più forte della vita stessa. Una decisione, un gesto estremo, una volontà espressa, un cofanetto, tanti ricordi. 

Una chiave, una storia, un incontro, una scelta coraggiosa e una nuova vita che nasce e rinasce in una luce di verità, verità che nasce dalla tristezza e dalla disperazione, da agghiaccianti ricordi e sensi di colpa che finalmente vengono redenti e vissuti attraverso il ricordo ed il racconto. La verità viene così alla luce ed accettata e si potrà così correre oltre, verso le onde di un mare nuovo, di vita e di speranza, non più di orrore e morte.

Un film mirabilmente girato da Gilles Paquet-Brenner, su soggetto tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay, con attori magistralmente calati nei loro ruoli ed emotivamente impattanti, e una colonna sonora (firmata Max Richter), che avvolge lo spettatore imbrigliandolo emotivamente e trascinandolo nel climax e nelle vicende dell’intera pellicola con una forza e carica espressiva che fanno da commento e da potenziamento ad ogni singolo personaggio, scena o vicenda che sia. The Tree, the Beach, the Sea e When She Come Back sono l’esempio di questo inscindibile legame emotivo ed empatico che il film genera tra lo spettatore e i protagonisti del film e della storia che, seppure romanzata nelle vicende della famiglia Starzynski, è invece storia vera, nuda e cruda di un terribile orrore dell’Umanità come l’Olocausto degli ebrei è stato e resterà sempre per la storia e per noi. Non possiamo e non dobbiamo negare questo crimine contro l’Umanità stessa che vive ancora, il dramma disumano della Shoa appartiene ad ognuno di noi e noi non possiamo negarlo, non possiamo cancellare e rinnegare le nostre radici. Perché, come ci ricorda il film, “siamo il frutto della nostra storia”.

Concludo con le parole di chi ha vissuto sulla propria pelle, sulla propria carne e con i proprio occhi queste brutalità mostruose e che non è mai riuscito a dimenticare e sopportare questo immenso, inaccettabile, inammissibile e disumano dolore inumano.

“Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.” 
Primo Levi



Fateci sapere cosa ne pensate, perché ovviamente noi non siamo assolutamente esperti di cinema né di Olocausto, ma soltanto due cui piacciono storie, raccontate in qualsivoglia maniera. E pensiamo che questa meriti di essere meno sconosciuta.


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