Rosick letterario

Me contro un libro.

Non lo sto prendendo a testate, né studiando uno di quei mattoni assurdi che incontri prima o poi durante la tua vita universitaria, per quanto tu possa dichiarare amore eterno al topic dei tuoi studi.

No, è un "semplice" libro di narrativa, e mi sta veramente mettendo in difficoltà.

Premessa doverosa e un po' prolissa.
Essendo uno che ha sempre amato definirsi un amante della lettura in qualunque forma essa si presenti, una mia necessità quasi fisiologica è quella di avere sempre un libro nello status "in lettura". Ad esso solitamente si affiancano in parallelo uno o più serie a fumetti, dipendentemente da quanto siano impegnative. E' una piccola tradizione, se così vogliamo chiamarla, e va avanti da, boh, anni, quasi da sempre.
Poi è arrivato il 2010, e mi sono trasferito a Roma.

Il primo anno è stato in qualche modo traumatico per le mie abitudini di vita, d'altronde avevo vissuto in due città piccole rispetto alla metropoli capitolina. E anche il versante dei miei passatempi ne ha un po' risentito: quando passi ore ed ore in macchina, non sei uso a certi ritmi e lo stress ti entra in ogni pertugio del corpo purtroppo nella conta delle 24 ore canoniche che ci sono state concesse qualcosa va pur sacrificato sull'altare della quotidianità. Ma tra una lettura in metro ed una durante il pit-stop fisiologico cui nessuno sfugge, le mie abitudini letterarie, seppur costrette a spazi minori, sono sopravvissute.
Leggere la sera a letto, gran goduria, è un evento sempre meno frequente, ma durante il mio periodo di adattamento alla vita romana qualcosina sono comunque riuscito a portare avanti, seppure sul comodino la pila di arretrati si accumuli e mi manchi il coraggio di iniziare tomoni che ho accarezzato con lo sguardo e la fantasia per mesi, complici ed artefici principali anche l'Università ed il Laboratorio con il suo carico di roba e lavori che alla sera ti lascia il cervello in stato comatoso; ma conto di riprendermi a breve.

Ok, tutto bellissimo, ma quindi?
Quindi è arrivato lui, "Pastorale Americana".

Pastorale americana (American Pastoral) è un romanzo scritto nel 1997 da Philip Roth. In esso si racconta la vita del suo personaggio principale, Seymour Levov ("lo svedese", o "the Swede"), ed in particolare come le sue grandi doti personali ed i suoi enormi sforzi non siano sufficienti ad evitare un disastro familiare. Con questo libro Roth vinse il Premio Pulitzer per la narrativa del 1998.

dice, wikipedia. 
Ora, non è un mio libro, ma mi è stato prestato. Di solito i libri non me li faccio prestare, né li chiedo in prestito per vari motivi: se me li prestano vado in ansia che devo restituirli e quindi si avvia una catena di eventi per cui anche se sto leggendo qualcos'altro devo mollarlo (magari a metà, orrore!) per leggere quello, oppure in quel periodo non mi va di leggere quel tipo di libro ma mi costringo e cose così. E poi, il rapporto con libro per me è intimo. 

Sono malato e ne sono al corrente, ma per me il "mio" libro ha una storia: mi ricorda magari il giorno dove l'ho comprato, con chi ero, il motivo che mi ha spinto ad acquistarlo. Un libro prestato è...uno straniero. Si, forse potrei definirlo così, non so da dove provenga, e magari all'interno ci trovi una sottolineatura su una parola che a te non dice nulla. O una piega su una pagina (doppio orrore!) perché lì il suo proprietario aveva trovato qualcosa di interessante.
E il bello è che adoro pazzescamente le bancarelle dei libri usati, di cui Roma è tappezzata (quartiere Delle Vittorie consigliatissimo, ndr) e ci ho fatto tanti acquisti. Direte, ma quelli allora? Non sono stranieri? No, sono adottati!

Ma a volte mi capita di abbandonare questa sorta di xenofobia che è inversamente proporzionale a quella che provo nei confronti di altri esseri umani per fortuna, e mi faccio prestare qualche opera. 
Tipo Pastorale Americana.



aNobii mi segna l'inizio della lettura a febbraio. 400 pagine, che sarà mai. 
Sono a pagina 120.
Ma allora il libro non ti piace? 

Mi piace tantissimo. Davvero. 
Cioè, Roth riesce a rendere interessante la storia di un tizio che al Liceo è il superfigaccione amatissimo da tutte che sembra non sbagliare nulla e brillare di luce propria, che crescendo si cristallizza in una orrorifica banalità da provincia americana, padrone della fabbrica di famiglia, padre esemplare, marito esemplare. E dell'altro tizio, il narratore, che idolatrava costui ai tempi del Liceo e in occasione di una rimpatriata -anta anni dopo tenta di scavare i lati nascosti di questa esistenza così perfetta all'esterno ma terribile tra le mura domestiche.

Roth, inutile che mi guardi. E' colpa tua. 
Mi rendo conto che io stia banalizzando assai tutto il concetto che c'è dietro (e non voglio rovinare nulla a chi vorrà leggerlo) ma è per farvi partecipi del fatto che pare un incipit banale ma è scritto da dio, e una volta che ti metti lì una pagina dopo l'altra, diventano una quarantina e non vuoi smettere.
Il problema è che poi smetti e per due settimane non lo tocchi.

Non so perché ma è diventata una lotta: è difficile aprirlo, perché la mia mente è ingombra da tanti, troppi pensieri e cerca svago e dice: guarda che non duri due pagine. Ma non è vero! 
Di solito mi accade per opere che non mi stanno entusiasmando, ma questa...non c'è motivo.
Insomma per farla breve e tagliare questo discorso non-sense: sto rosicando.

Quanto ci metterò ancora?
A voi è mai capitato?



"Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati."

Commenti

  1. Mi sembra appropriata questa nota, il tuo intervento me l'ha fatta tornare in mente:
    Il "libridinoso" lo si riconosce da come rallenta davanti a una libreria: non appena avverte la presenza di una grossa concentrazione di carta stampata, si blocca, dà uno sguardo morboso alla vetrina, vorrebbe allontanarsi ma non ce la fa, esita ancora un poco, poi alla fine, gettata la spugna, entra e si precipita verso il banco.
    Magari quel giorno ha anche un po' fretta, un appuntamento di lavoro o d'amore, ma la tentazione è più forte di qualsiasi altro impegno: una forza sconosciuta lo scaraventa all'interno, lo costringe ad aggirarsi tra i banchi, a guardare freneticamente i titoli, i colori, le copertine e le fascette con le tirature. Cos'è che sta cercando con tanta disperazione? Ha forse bisogno di comprare qualche libro in particolare? Vuole informarsi sulle ultime novità editoriali? Niente di tutto questo: il "libridinoso" è semplicemente attratto dalla presenza di libri, vorrebbe toccarne il più alto numero possibile, e , nei casi più gravi, vorrebbe annusarli.
    Amare un libro, non solo per il contenuto, ma soprattutto per la sua fisicità, per il suo essere tangibile, è una malattia come un'altra.
    Per gli individui affetti da questo morbo il libro, una volta letto, cessa di essere una delle tante copie in circolazione di un testo e diventa parte integrante del proprio corpo e, come tale, non può più essere ceduto in prestito a nessuno. E' memoria viva, è carne della propria carne, è deposito distaccato dell'anima.
    Il vizioso di solito, quando legge, sottolinea i passi preferiti. E' un modo come un altro per marchiare un testo, per metterci sopra la propria firma. Chi sottolinea una frase non lo fa per rintracciarla un domani più facilmente, ma solo per rendere visibile il suo godimento. Quasi a significare: qui mi sono emozionato e voglio che si veda. A volte il "libridinoso" si affeziona perfino ai libri che disprezza. Se qualcuno gli regala il romanzo di uno scrittore che non ama, lui, diligentemente, lo ripone in uno scaffale e lo abbandona per sempre alla polvere: non ne leggerà mai una pagina, ma non avrà nemmeno il coraggio di buttarlo via. Bello e brutto che sia resta sempre un libro, e, in quanto tale, un oggetto da rispettare.
    Riflettiamo un attimo sull'utilità di una biblioteca domestica. Oggi una famiglia di buona cultura, tra romanzi, saggi e strenne natalizie, finisce quasi sempre con l'accumulare un migliaio di titoli: come dire un paio di metri cubi di casa da destinare ai libri vita natural durante. D'altra parte, come dice Ignazio Butitta "una casa senza libri è una stalla".
    Ci si chiede: ma è poi così importante averli tutti a portata di mano? Quanti di essi verranno riletti? Che probabilità ha un romanzo come Delitto e castigo di essere letto una seconda volta? Praticamente nessuna, eppure guai a chi ce lo tocca!Se per caso un amico ce lo chiede in prestito lo guardiamo con odio: sicuri che non ce lo resituirà mai, preferiremmo dargli direttamente i soldi del rpezzo di copertina piuttosto che vederlo uscire con il nostro libro sotto il braccio.
    Qualcuno potrebbe obiettare che, a meno di manoscritti rari o di testi introvabili, in caso di mancata restituzione potremmo sempre ricomprarne un'altra copia. Sì, ma non sarebbe più quel libro, quello sul quale abbiamo letto e ci siamo emozionati.
    [Luciano de Crescenzo]

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  2. L'avevo letto tempo fa, ma l'avevo rimosso! Direi che è una disamina puntuale e perfetta di qualcosa che provo anche io: un mix infernale tra entrambi, e camera (anzi camere) mia(e) ne è (sono) testimone(i)!

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  3. eheheh ti capisco benissimo!
    Per dirti, per quel che riguarda me c'è stato un periodo in cui leggevo, ma cosa più importante perché AVEVO VOGLIA di leggere.
    Poi, un pò per il liceo che imponeva determinate letture (cosa che ho sempre detestato, la lettura è un piacere NON un obbligo), un pò per tanti altri fattori, non sono riuscito per un bel pezzo ad aprire un qualsiasi libro, ero sempre alla ricerca di uno che riuscisse a soddisfarmi, che mi piacesse a 360°, ma in realtà sapevo benissimo che in ogni caso non sarei riuscito a leggere più di una decina di pagine.
    Stessa situazione di adesso, troppi pensieri al momento, la maggior parte riguardanti il futuro. Faccio fatica a prendere in mano un libro perché perdo facilmente la concentrazione, e spesso sono costretto a rileggere più volte le stesse parole o frasi.
    A quel punto capisci che anche il più semplice dei libri rischia di diventare piuttosto pesante da affrontare e rinunci perché sai che non ti stai godendo affatto la lettura, rimandando ad un periodo in cui la mente sarà libera da qualsiasi pensiero.

    Molti continuano a ripetermi: ma perché non leggi mai?
    Ma nonostante io cerchi di spiegare non capiscono, e in parte non posso biasimarli.
    Così come molti pensano che non legga perché non mi piacciono i libri...grandissima cazzata.

    Ad ogni modo però, si potrebbe dire che io sono un caso a parte.

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